Intervista a Giorgio Bonomi, curatore della mostra ASTRAZIONI/1. Generazione anni Cinquanta al MLAC
a cura di Mariacristina Appella, Alice Guzzetti, Bianca Miki Zelli
Giorgio Bonomi all’inaugurazione di ASTRAZIONI/1. Generazione anni Cinquanta
Abbreviazioni:
Mariacristina Appella: MA
Giorgio Bonomi: GB
Alice Guzzetti: AG
Bianca Miki Zelli: BMZ
7 maggio 2025
AG: Il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza è la tappa finale di una mostra che ha visto una sua prima edizione presso l’ex Granaio di Deruda e una seconda alla Rocca Centro per l’Arte Contemporanea di Umbertide. Che taglio curatoriale ha voluto dare a questa specifica esposizione? Cosa la differenzia dalle due edizioni avvenute precedentemente?
GB: Questa è una mostra a tema. Le mostre possono essere su un concetto, oppure su uno stile. In questo caso è su un periodo temporale. Insieme al mio collega Fiorucci abbiamo operato una scelta tra diversi artisti della generazione degli anni Cinquanta, basata su stima e conoscenze. All’ex Granaio di Deruda abbiamo realizzato un’anteprima: si trattava di uno spazio piccolissimo, in cui le opere stavano strette. Successivamente, un nuovo allestimento è stato fatto alla Rocca di Umbertide, una rocca medievale di una cittadina vicino Perugia. Qui era più ampia rispetto alla prima edizione. Infine, siamo approdati al MLAC dove, appena l’ho vista allestita, sono rimasto meravigliato: avere la parete bianca sul fondo dà una resa migliore di quella che si aveva sul muro antico. C’è una “corrispondenza d’amorosi sensi” tra l’opera e l’ambiente. Qui, in questo spazio neutro, le opere astratte risaltano molto di più, non c’è un’interferenza.
AG: A cosa è dovuta la scelta di dare un taglio generazionale?
GB: Non c’è un motivo particolare. Io ho la presunzione di lavorare storicamente e per farlo bisogna seguire un metodo scientifico, per dare un contributo alla cultura. Noi facciamo la storia dell’arte in senso vasariano, attraverso lo studio dei personaggi che hanno fatto arte. Ma io credo nell’importanza di saper leggere anche le storie minori: basta girare nel territorio e ci sono centinaia di artisti sconosciuti.
BMZ: Dal punto di vista curatoriale e critico, come ci si muove per liberarsi dalla tendenza contemporanea dell’“ismo” e da quella ad accomunare a un’unica narrazione? La qualità sincretica e trasversale dei lavori in mostra può essere considerata un’alleata in tal senso, nel superamento di una corrente?
GB: Gli “ismi” e le correnti, se non sono fossilizzati, sono strumenti utili per il discorso. La storia è costituita dalle res gestae, i fatti. Ma esiste anche la historia rerum gestarum, la storia dei fatti, che è quella scritta. Qui entrano in ballo categorie e classificazioni che sono sempre o troppo strette o troppo larghe, ma servono per chiarire il discorso. In storia dell’arte io li uso certi blocchi, per comodità. Vedi per esempio l’arte povera o la Transavanguardia, dove è stata fatta una selezione stretta degli artisti. È una strategia che può tornare utile, ma con molta elasticità, non deve essere un’ipostatizzazione ontologica.
MA: Lei nel catalogo ha parlato di una “eterna giovinezza” che caratterizza gli artisti esposti, che si traduce in una sorta di mancato riconoscimento. Secondo lei perché c’è questo mancato riconoscimento? Può essere superato?
GB: Questo è un grosso problema per il quale non ho una risposta. Faccio un’analisi fenomenologica. Fino a qualche anno fa c’erano i grandi artisti, come Turcato, Accardi, Alighiero Boetti, Schifano, che il sistema dell’arte riconosceva. Questi “ragazzi” qui esposti, che hanno circa dieci anni in meno di me, quando li ho conosciuti li consideravo giovani artisti. Ora siamo tutti invecchiati, ma continuano nel sistema dell’arte a essere considerati giovani. Nel mondo dei critici e degli storici d’arte accade la stessa cosa. Gli Argan, i Calvesi, i Caramel, i Barilli, i Crispolti, che erano riconosciuti, oggi non ci sono più. Non hanno lo stesso carisma e non è una questione che riguarda la bravura, non so da cosa dipende. Forse è il mondo a essere cambiato.
BZM: Ritiene che continuare una ricerca pittorica intorno alla superficie in un’epoca di avanzamento tecnologico, in cui la produzione artistica si muove sempre più verso l’installazione e il performativo, delinei una postura anticonformista, e quindi c’è nell’apparente conservatorismo una carica di sovversione?
GB: Mi piace questa impostazione per cui uno può sembrare conservatore, ma in realtà non lo è. Sono sempre stato attento all’arte tecnologica, però c’è un aspetto, che riguarda anche un po’ tutta l’arte concettuale, a cui bisogna stare attenti. La storia dell’arte ci ha dato due grandi artisti, ma cattivi maestri. Uno è Sol LeWitt che ha affermato “l’arte è un’idea”, che può essere vero, ma resta comunque un’idea che si fa con le mani. L’altro è Beuys, che ha dichiarato “siamo tutti artisti”. Per come la vedo io, siamo tutti creativi, ma non artisti. Per quanto il risultato possa essere effimero, come nel processo delle avanguardie di riduzione dove si giunge infine alla performance, l’arte necessita comunque di un prodotto. Sono consapevole che gli artisti qui esposti appartengono a un genere legato al passato, ma l’arte vera non muore mai. A volte è più moderno Piero della Francesca che non uno che fa videoarte.