Homolù Dance | Intervista all’artista Franco Cenci

Sappiamo che ti sei laureato qui in Sapienza in Lettere e filosofia, come hai vissuto il ritorno nella tua università con l’esposizione della mostra Homulù Dance?
E’ stata una grande emozione e anche un piacere. Sono rientrato in quella che è stata la mia Facoltà e l’ho vista trasformata: non più luogo di solitarie e individuali esperienze di studio, ma laboratorio vivo, frequentato da studenti curiosi che condividono lo stesso amore per l’arte.

Il titolo di questa mostra è stato creato giocando con il termine homo ludens. Tu che definizione useresti per Homolù Dance?
Quando pronuncio la parola homo penso al celebre disegno leonardesco, l’Uomo vitruviano, che metteva la creatura umana al centro del mondo, immobile dentro a un cerchio e un quadrato, cioè incastonata tra cielo e terra. Quell’immagine fa eco anche al mio Homolù Dance, o meglio ne è il punto di partenza. Nella parete tra le lettere si avverte un vuoto, un’assenza fino a quando il visitatore non si decide a entrare nel recinto dell’arte e dà letteralmente corpo a quel fantasma, l’homo ludens. Se definizione dell’opera ci deve essere è nello svelamento del titolo: un uomo che gioca, che appare e danzando… fiat lux.

Come vivi i tuoi momenti creativi? Ti senti più ispirato vivendoli solo con te stesso o condividendoli sin dall’inizio con le persone che ti sono accanto?
Il mio lavoro si svolge nella completa solitudine. Credo che la creazione abbia bisogno del silenzio. Come accade al momento della nascita e della morte, siamo soli. Soli di fronte al mondo e in ascolto. Così l’opera prodotta può avere l’intensità di un vagito.

L’ornitologia è una tua grande passione, a tal punto da ritrarre persone a te care nelle sembianze di questi animali. Che cos’è che ti affascina del loro mondo, al punto di farne un tuo interesse così strettamente collegato a una parte tanto intima della tua vita?
Una volta un caro amico che mi voleva un gran bene, dopo una settimana passata insieme, mi guardò deluso e mi disse a mezzabocca: “Uomo senza passioni”. Non so se questo sia vero però mi resta difficile definire i miei interessi, vere passioni.
L’ornitologia mi affascina, mi piace soprattutto trovare analogie tra le cose, tra noi e il resto del mondo. Il mondo degli uccelli e più ancora quello animale offrono mille occasioni per allacciare relazioni, per scovare la semplicità dove c’è complessità. Se dico che sono simile a una gazza, vuol dire che come questo uccello amo le cose preziose, che mi attira la bellezza degli utensili, del manufatto, che mi piace raccogliere e conservare cose abbandonate dagli altri. Banale psicologia? Forse, ma è così che mi comporto.

L’obiettivo è quello di indagare il gioco nei suoi vari aspetti, tra questi un ruolo fondamentale lo hai riservato agli spettatori, i quali hanno la possibilità di prendere parte ai tuoi lavori. Come descriveresti il rapporto che si crea tra opera e fruitore, nel momento in cui quest’ultimo abbatte il muro ed entra a far parte dell’opera stessa?
L’arte dei secoli passati ha costretto lo spettatore a osservare; c’era un divieto assoluto di toccare, di interagire manualmente e fisicamente con l’opera. L’artista era un tramite per raccontare storie e costruire miti. Sappiamo tutto della Primavera di Botticelli ma poco del pittore. Nel XX secolo l’artista si è messo al centro della creazione: è diventato lui il Cristo o il santo da riconoscere. Il fiato di Manzoni, il corpo di Klein ma anche il toro di Picasso, ci raccontano l’artista stesso. Ma il rischio è che questa sovraesposizione collassi e venga meno la comunicazione, che l’artista resti chiuso in sé. Un’opera di Horacio Zabala, pioniere della Mail Art che conobbi e frequentai negli anni ’80 dello scorso secolo, riporta la scritta “Today art is a prison”. Allora capivo poco a cosa alludesse l’artista argentino, ora penso che le mie opere sul gioco vogliano rompere l’isolamento a cui ci costringe l’arte e riavvicinarci allo spettatore. Mi fa piacere vedere mani che fanno rullare i miei alfabetieri e occhi che cercano risposte nei rebus.

L’utilizzo dei social è ormai parte delle nostre vite, influenzandone vari aspetti. Anche la scena artistica contemporanea ne è coinvolta. Che opinione hai di questo utilizzo? Credi che si rischi di perdere il lato più poetico dell’arte o che stimoli il lato più comunicativo con il pubblico?
Non saprei come inquadrare questo aspetto nell’iter creativo, per il momento ne resta escluso. Certo sfrutto le possibilità che i social offrono di promuovere eventi ma non altro. Almeno per il momento.

Che consiglio daresti a dei giovani ragazzi che vogliono intraprendere la carriera artistica?
Non appiattirsi, non percorrere strade già battute, non aver paura della propria voce e – perdonate la licenza – cantare col cuore.