Intervista a Irene Caravita, curatrice della mostra “Mario Giacomelli tra pittura e fotografia”

Dal 14 marzo al 14 aprile il museo MLAC – Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, ha avuto il piacere di ospitare la mostra Mario Giacomelli tra pittura e fotografia, curata da Irene Caravita in collaborazione con l’Archivio Mario Giacomelli. La curatrice ci ha gentilmente offerto la possibilità di approfondire con un’intervista alcuni aspetti dell’artista e della sua ricerca. Con l’occasione si inaugura anche un nuovo format del museo: Le interviste del MLAC, un podcast da ascoltare in ogni momento, con approfondimenti sulle mostre in corso e curiosità.

1. Come nasce l’idea di mettere in risalto l’attività di Giacomelli come pittore?
L’idea di mettere in risalto l’attività di Giacomelli come pittore nasce perché c’era stata un’amnesia generale sulla sua pittura: veniva ricordata en passant, così come si ricordava che scriveva poesie… come se fossero due elementi che andavano a rafforzare l’idea di un Mario Giacomelli molto lirico, dedito anche all’utilizzo di questi altri due linguaggi artistici. Quindi, nonostante le menzioni in alcune voci della sua bibliografia, nessuno aveva mai approfondito questo aspetto. Io stessa non avevo praticamente percezione del fatto che lui avesse dipinto in maniera così strutturata fino quando non mi sono imbattuta nella sua mostra nella galleria “Il diaframma”: nel dépliant di questa mostra viene menzionata da Giuseppe Turroni la presenza di Mario Giacomelli con alcuni dipinti. Da lì è partito questo viaggio all’interno dell’archivio, che mi ha gentilmente aperto le porte e mi hai permesso di vedere e di studiare questo corpus di opere che si è rivelato molto più sostanzioso di quanto immaginassi: poco più di 400 lavori su carta, su tela e su cartone molto eterogenei. Quindi, una volta toccata con mano la quantità, ma soprattutto la qualità di questi lavori, è risultata davvero lampante la necessità di riportarli al pubblico, studiarli e riaprire il discorso, attraverso un approfondimento scientifico e storico su questa figura. Questo lavoro è stato fatto riportando la pittura al pari della fotografia, con la consapevolezza che si trattasse di un linguaggio usato da Giacomelli con un diverso approccio e con un diverso obiettivo, però con tutta la sua dignità.

2. Qual è il rapporto tra la pittura e la fotografia di questo artista?
Mi spingerei a ritenere, supportata dalle precoci intuizioni di Arturo Carlo Quintavalle, esposte nella monografia del 1980, che la cultura visiva di Mario Giacomelli si nutrisse quasi più di pittura che di altra fotografia: non dimentichiamo che è stato “allievo” di Giuseppe Cavalli, che era un grande intellettuale e uomo di cultura e che lo spinse sicuramente a raffinare la sua conoscenza anche della storia dell’arte, non un solo della fotografia contemporanea o antica.
In modo simile, il suo sguardo sulla poesia è costantemente alla ricerca di stimoli e punti di vista inediti sui soggetti. E ricordiamo che la fotografia non è mai un lavoro, bensì un campo di libera espressione. Pertanto, anche tra dipinti, disegni, incisioni e fotografie non vediamo interruzioni: tutto scorre senza soluzione di continuità. Si notano regolari e forti rimandi stilistici, compositivi ma anche ideologici e poetici tra cicli fotografici e pitture.
Penso in particolare alla serie “Astratte”, con alcune opere esposte al MLAC e realizzata nei primi anni Novanta, in un periodo nel quale Giacomelli dipinge molto poco (presumibilmente – ma non è del tutto escluso che non siano semplicemente stati conservati i lavori di quel decennio). Si nota, dunque, un costante riversare nei diversi linguaggi del pittorico o fotografico le stesse problematiche, o guardare agli stessi soggetti.

3. Nei lavori esposti al MLAC notiamo che le opere presentano numerose ridipinture. Cosa ci può dire circa la pratica pittorica di Giacomelli?
Uno degli obiettivi primari della mostra, oltre a lavorare per piccoli nuclei visivamente forti, era sicuramente parlare della processualità del lavoro di Giacomelli, del suo modus operandi.
La processualità del lavoro fotografico di Giacomelli, ben studiata e raccontata, non è ordinata e rigida, anzi: si sviluppa e si espande senza precisione attraverso continue stampe, ritagli di negativi, doppie esposizioni, diverse prove di stampa con maggiori contrasti… insomma, una manipolazione senza fine della materia, pur esigua nella fotografia. Quando si tratta della pittura vediamo lo stesso caos creativo: percepiamo un amore appassionato per la materia che si tocca e si rimodella costantemente. Nulla nel mondo naturale è immobile e, così, non lo è nei dipinti di Giacomelli. Tutto questo si nota nelle frequenti doppie firme, talvolta con datazioni diverse o anche nello spessore delle tavole (talvolta arriva quasi a 1 cm). Non dobbiamo dimenticare che Giacomelli non amava le date, lo dichiara frequentemente, anche se le sue dichiarazioni sono da prendere con le pinze. Per tutta la sua carriera vediamo che ritorna regolarmente su cicli fotografici con un continuo ritorno sullo stesso materiale visivo… lo stesso vale anche per la pittura.

4. La mostra si apre con una natura morta in cui è evidente l’influenza di Paul Cézanne. In generale, le tempere e i collage di Giacomelli rivelano un profondo interesse per le arti visive, da cui traeva ispirazione. Quali sono gli altri artisti che lo hanno influenzato? In che misura?
Non è mai semplice parlare di influenze tra artisti senza arrivare a dire: questo l’ha fatto prima uno, questo lo ha fatto prima l’altro… soprattutto nel caso di Mario Giacomelli che non è mai stato del tutto pittore. Cezanne è stato, sicuramente, un modello per lui molto importante, non solo visivo, ma anche intellettuale: sappiamo che Giacomelli studiava con attenzione le lettere di questo artista. Tuttavia, anche altri autori a lui più vicini cronologicamente sono stati degli importanti modelli. Tra tutti certamente Alberto Burri, come celebrato anche recentemente da una bella mostra itinerante che accostava la pittura di Burri e la fotografia giacomelliana. Oggi al MLAC possiamo vedere alcune pitture dell’artista senigalliese impossibili da non definire “burriane”. Per fare altri nomi è sicuramente importante Antoni Tapiés, del quale Giacomelli possedeva il bel catalogo firmato: sfogliandolo, si riconoscono modelli molto forti per alcuni dipinti, oltre alle ricorrenti X nere, di sicura memoria tapiéssiana.
È importante citare Giuseppe Capogrossi, Ennio Morlotti, Renato Birolli… tutti autori che Giacomelli amava e dei quali possedeva stampe e prove grafiche.

 

5. Tra tutti gli artisti, sappiamo che Mario Giacomelli nutriva profonda stima nei confronti di Alberto Burri, uno dei più grandi esponenti della pittura informale materica. Si conoscevano personalmente? Come e quanto si sono influenzati reciprocamente nella loro attività artistica?
La pittura di Mario Giacomelli può essere definita informale, grazie anche ai contatti visivi e al suo rapporto con Burri, che era non solo personale ma di grande stima reciproca. Rispetto a Burri si potrebbe approfondire molto ed è stato già fatto in diverse occasioni da tanti punti di vista. I due si incontrano nel 1966: Giacomelli è ormai un fotografo riconosciuto internazionalmente, due anni prima è stato esposto al MoMA di New York; ma Burri è un gigante e il senigalliese gli si rivolgerà sempre con una certa deferenza e soggezione, tanto da dichiarare, in una conversazione con Simona Guerra pubblicata da Mondadori con il titolo La mia vita intera, di aver smesso di dipingere dopo l’incontro con Burri, annichilito dalla sua figura (in senso lato). Oggi noi sappiamo che non è vero, anzi: la produzione pittorica giacomelliana giunta fino a noi è concentrata in particolar modo nel decennio degli anni Settanta, dopo gli incontri con Burri. Mi spingerei a ipotizzare, contraddicendolo, che anzi, questo contatto intenso e scioccante deve avergli dato nuova fiducia, nuova forza e stimoli.

 

6. Mario Giacomelli è sempre rimasto molto legato al suo lavoro da tipografo senza mai definirsi “artista”. In particolare, ha tenuto gelosamente per sé le opere pittoriche, salvo rare eccezioni di esposizione. Alcuni lavori sono stati regalati ad amici e colleghi. Allo stesso tempo, era sempre disposto a dedicare qualche minuto della sua giornata agli studenti che lo andavano a trovare nel suo studio. Cosa ci può dire del suo carattere?
Giacomelli non si è mai definito artista. Era molto umile. Rimane legatissimo a Senigallia e alla sua rete di rapporti locali, nonostante poi facesse parte di un’associazione di artisti internazionale. Nonostante questo, lavora per tutta la vita nella tipografia dove prima era entrato come apprendista e che poi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, diventa la sua attività quotidiana. Invece è difficile per me parlare del suo carattere, non avendolo conosciuto di persona. Penso inoltre che non fosse un uomo comprensibile a prima vista. Non era affatto semplice. Eppure era un uomo umile, onesto, profondamente appassionato dell’umano e quindi anche aperto a ogni contatto, a ogni conversazione, a ogni relazione che si potesse intraprendere. È stato fondamentale, per la buona riuscita di questa mia ricerca, poter dialogare a lungo con vecchi amici di Giacomelli, come Helmut Schober e Walter Bastari. Ne è emerso, ai miei occhi, un uomo estremamente generoso e vivacissimo, attivo in ogni ambito, invitato a partecipare a ogni associazione, evento o mostra cittadina.

 

7. Personalmente, quale opera crede che rappresenti maggiormente la chiave per comprendere questa mostra?
Qualche mese fa avrei detto i due monocromi bianchi esposti al MLAC, o le carte grafiche a china (una delle quali è stata scelta come immagine per la comunicazione della mostra e la copertina del libro uscito per Campisano Editore in questa occasione)… Ora, dopo averci lavorato diversi giorni per fotografarle, incorniciarle e allestirle, non lo so più: sono molto affezionata a tutte quante in un certo senso.
Amo molto anche la carta neutra con le impronte del legno, il mare con i frammenti di tessuto, pieno di gioia…

Giacomelli