CONTAGION: intervista a Borelli, Zacheo e Marcotulli

Tre interviste in una. Abbiamo fatto qualche domanda a Fabrizio Borelli, artista attualmente in mostra. Con lui anche la curatrice, Maria Italia Zacheo e Rita Marcotulli, pianista e compostrice che con Elettra Minieri ha firmato il testo musicale del video CONTAGION Suite.

Intervista a Fabrizio Borelli

Domanda: Chi o cosa ha ispirato nel 2013 la realizzazione della prima serie della mostra Figurazione senza tempo?

Risposta: Ho iniziato, almeno dal 2008, a riflettere sul valore di archetipo, di immagine primordiale, delle figure diagnostiche, le ossa, il cuore, il cervello. Poi la figura dell’encefalo si è rivelata come sintesi dell’individuo, del suo pensiero e del suo agire, il nucleo fondante e costruente della persona. E dunque, con quegli encefali, ho immaginato di costruire il racconto di una comunità.

D: Quando e com’è iniziato il suo percorso artistico? Come nasce una sua opera?

R: Non so dire quando. Posso dire come. Il mio interesse per la fotografia, e più in generale per l’immagine, è antico. Ho praticato mestieri e inclinazioni che mi hanno insegnato linguaggi e poi guidato nell’ideazione e/o la costruzione di progetti. A breve, medio, lungo, lunghissimo termine. Fotografia pura, analogica, contaminata, digitale, cicli aperti, cicli chiusi. L’interesse e l’attenzione all’immagine sono la mia sottostoria. Lo è l’osservazione. La fotografia e la metafotografia sono il mio modo di osservare le cose nel profondo. Poi arriva la sintesi, ciò che Lei definisce, forse un po’
sontuosamente, opera.

D: Perché l’uso dei colori rosso e verde complementari?

R: Mi sono occupato seriamente del colore tardi, quando mi sono avvicinato al digitale. Quasi mai ho fotografato a colori, non potevo controllare il processo. Nei Mindscapes degli anni ’80 ho lavorato sul colore, fu un’esperienza divertente, di grande contaminazione, Cibachrome fatto in casa, dia in grande formato, aerografo, retroproiezioni, ritagli, maschere, una produzione limitatissima, una decina di scatti.
Poi, con il digitale e la possibilità di creare colori anche fuori gamma, mi sono appassionato al contrasto simultaneo, in particolare all’influenza che i colori esercitano l’un l’altro quando li metti vicini. Il rosso e il verde si dispongono meglio per la mia sensibilità.

D: Come deve affrontare lo spettatore la visione delle due serie dalla mostra?

R: Abbandonarsi, fidarsi, vedere una storia soprattutto. La sequenza è un racconto, non una serie di figure. C’è un nesso, il gioco è riconoscerlo.

D: Quanto è importante il “mezzo” artistico? Come usa il media fotografico nel suo lavoro?

R: La fotografia, per me, è un secondo alfabeto. Con la fotografia faccio, provo a fare di tutto. Ho impastato, amalgamato, da sempre, e non finisce qui. Il mezzo è cruciale, va conosciuto, sentito, lo devi sentire sotto il sedere, come quando guidi forte una macchina sportiva.

D: Perché la scelta di un cranio malato?

R: Non è malato, le svelo un segreto, l’encefalo è il mio. Un semplice controllo, se sia malato non so, allora non lo era.

D: L’opera è una comunità inizialmente affollata e che improvvisamente, a poco a poco, lascia degli spazi vuoti, trasformando l’equilibrio raggiunto. Da cosa nasce questa riflessione?

R: Dall’osservazione della vita, è proprio così che succede, forse in modo meno manifesto nella realtà, ma è proprio così che succede.

D: Può spiegarci il progetto legato all’app? Sarà di nuovo scaricabile?

R: Il progetto è sperimentazione pura. È incontro e incrocio di linguaggi e mondi differenti. Da spiegare non c’è molto, è lo scambio tra un “artista” e uno sviluppatore anch’esso, a suo modo, “artista”. Io ti do il mio concept, le mie figurazioni, i miei colori e tu mi dai le tue dinamiche di gioco. Il progetto vero è il percorso che ha generato l’App. Stiamo lavorando perché sia di nuovo scaricabile.

D: Il gioco ha come scopo il raggiungimento di un obiettivo comune tra i partecipanti; quindi, potremmo paragonarlo al quadro completamente nero tra la fine della prima serie e l’inizio della seconda?

R: Il gioco non ha uno scopo, ha un engagement, che può essere condiviso come no.
Non si tratta di vincere dobloni, terreni o vite. Il gioco ti dice che se partecipi puoi intervenire sul tuo stato, resistant o vector, altrimenti ti abbandoni alla dinamica “idle”. Un po’ come la vita, se partecipi puoi decidere o avere l’illusione di decidere sul tuo destino, se non partecipi devi accettare quello che viene. Questa è la scelta.
Il nero è pausa, riposo, Entr’acte muto.

Intervista a Maria Italia Zacheo

Domanda: In che modo è stata progettata la mostra? Qual’è stata la sua idea curatoriale per
l’opera di Fabrizio Borelli?

Risposta: L’opera Contagion rappresenta una tappa significativa nella ricerca poetica di
Fabrizio Borelli. Completa sperimentazioni artistiche/concettuali attivate nella produzione
precedente sul contrasto simultaneo, sui colori complementari, sul dualismo
nell’immagine, sulla composizione/manipolazione, sul gioco e sulla simulazione,
sull’identità, sul “confine”.
Quindi, assodato nell’Opera il processo creativo pre – Contagion, ho proposto un
progetto espositivo proiettato al futuro: un percorso allusivo, aperto a altri viaggi. Dai risultati raggiunti con le serie metafotografiche, di fatto l’opera Contagion, si è poi incarnata (2022) attraverso più tipi di media, proponendo davvero l’avventura di nuove narrazioni.


D: Quando avete deciso di coinvolgere Rita Marcotulli e Elettra Minieri?

R: A qualche mese fa risale l’incontro. In verità il rapporto con la musica, con il suono, è presente in molte “prove d’autore” di Fabrizio Borelli.

D: Qual’è stato il filo conduttore per l’allestimento della mostra?

R: Il racconto itinerante.

D: Quanto incide la musica sull’allestimento?

R: Alle tavole in successione corrispondono combinazioni spazio/temporali. Ognuna
un’astrazione, un microcosmo. Segno/simbolo l’encefalo, osservato, rappresenta il singolo e la comunità nel suo cammino.
Dal ritmo di un metronomo zoppo – sussiste nell’opera originale – alla musica di Marcotulli e Minieri: la musica dialoga con l’opera intera, in continuità. Presenze – assenze – pause.

D: Durante l’allestimento quali sono state le principali difficoltà, se ci sono state?

R: Lo spazio, bellissimo, non fa sconti. Nascostamente impone le sue imperfezioni,
non solo le sue potenzialità. Il risultato parla da solo: lo spazio valorizza la narrazione, la sequenza ritmica esalta lo spazio. Un grande grazie, per il generoso impegno, a chi ha allestito.

D: Perché si è scelto di utilizzare solamente una didascalia per tutta la serie?

R: Il senso dell’opera è nella sequenza ritmica delle due serie.
Ogni tavola rappresenta una combinazione in un ciclo.
La didascalia unica (per serie) è stata una scelta corrispondente.

 

Intervista a Rita Marcotulli

Domanda: Sarebbe interessante conoscere il processo creativo che l’ha portata alla realizzazione della musica. Può raccontarcelo? 

Risposta: Quando Fabrizio mi ha mostrato il suo lavoro è come se avessi visualizzato una partitura, geometrica, come la musica. Gli encefali, ordinati in cinque per cinque, ogni cella una nota. Dove non c’è la figura – dove c’è il nero per intenderci – c’è una pausa (la riflessione), ad ogni cambio  di colore cambiano le note. E ancora, un vuoto una pausa.
D: In che modo queste opere d’arte l’hanno influenzata nella creazione della base musicale? 
R: Da questa idea, io e la giovane compositrice Elettra Minieri, abbiamo cominciato a lavorare su una pulsazione ritmica in 5/4  a volte frammentata dalle pause. Sopra questa pulsazione abbiamo cominciato a costruire una melodia che si trasforma a ogni ciclo compiuto. Come il mondo che è ciclico, cambia, ritorna e cambia di nuovo, come cambia la storia, cambiano le cose, anche se non ce ne accorgiamo, siamo noi ma non siamo più noi , è la contaminazione, l’esperienza che ci trasforma. E così la musica parte da una pulsazione ritmica seguendo il disegno delle tavole, e ogni volta si trasforma, è più compiuta, più definita, la melodia, l’armonia, per poi arrivare alla parola, il pensiero: “Why we are here ! And where we go…”
D: Ci può raccontare com’è stato collaborare con un’artista come Fabrizio Borelli e se ha avuto esperienze simili prima?
Conosco Fabrizio da moltissimi anni, è un caro amico che ho sempre stimato, come artista e come persona, c’è sempre stata una certa affinità tra di noi. Fondamentale quando si lavora su un opera creativa è essere sulla stessa frequenza di pensiero. È imprescindibile.
In passato avevo già composto per immagini, soprattutto per il cinema, un processo altrettanto stimolante ma diverso. C’è una storia che ha bisogno di un commento musicale.
In questo caso l’ immagine è la partitura! Una cosa unica. È stata la prima volta che ho lavorato su un’opera d’arte contemporanea, per esporre insieme, un’esperienza  molto bella, di condivisione, e soprattutto è stato bello comporre la musica a quattro mani con Elettra che ha scritto le armonie e l’idea melodica, poi elaborata  e completata insieme.