INTERVISTA A GUSTAVO GIACOSA – Curatore mostra “Scritture erranti”

INTERVISTA A GUSTAVO GIACOSA

Curatore mostra “Scritture erranti” – MLAC Università Sapienza di Roma

Realizzata da Matteo Mazzonetto

Dal 4 aprile al 13 giugno 2024, il Museo MLAC, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università Sapienza di Roma, presenta la mostra “Scritture erranti”, a cura di Gustavo Giacosa.

L’esposizione si pone l’obiettivo di indagare gli aspetti visivi della scrittura, evidenziando il rapporto tra scrittura e immagine, attraverso opere sia di artisti di Art Brut sia di artisti contemporanei, tutti parte della collezione Giacosa-Ferraiuolo. Il tema viene affrontato in maniera trasversale, nel tentativo di offrire diversi spunti di riflessione.

 

1) La mostra “Scritture erranti” arriva al MLAC dopo essere stata presentata con grande successo tra il 19 gennaio e il 16 marzo 2024 presso la galleria La Manifacture di Aix-en-Provence. In che modo è stata progettata questa mostra negli spazi del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università Sapienza? Qual è stata la sua idea curatoriale?

La mostra del MLAC eredita la struttura della mostra presentata ad Aix-en-Provence, dal 18 gennaio al 16 marzo e risponde alla stessa divisione in sezioni. In questa occasione ho realizzato un catalogo in lingua francese-italiano che accompagnava la mostra in Francia e in previsione di questa a Roma.  Da un punto di vista curatoriale l’esposizione è una rivisitazione e un adattamento per gli spazi del Museo MLAC. Restano le sei sezioni, nonostante lo spazio sia più ridotto. Questo mi ha portato a dover fare delle scelte e una selezione di autori e di opere. Purtroppo ho dovuto eliminare molte opere e anche un paio di artisti che erano presenti nella mostra di Aix-en-Provence. Questo per trovare un ritmo giusto, che sia più consono a questo spazio. Ad Aix-en-Provence, per esempio, c’era uno spazio che necessitava di una scenografia e di uno scompartimento. Le sezioni erano compartimentate in luoghi fisici e divise da muri. Qui invece lo spazio è unicum, c’è un senso di continuità col quale io dovevo lavorare. Ma questo è il lavoro di un curatore: ripensare il suo progetto in funzione delle contingenze, dei mezzi messi a disposizione.

 

2) La mostra si intitola “Scritture erranti”, quale significato gli attribuisce? A tal riguardo cosa rappresenta per lei la scrittura e cosa vuol dire tramandare attraverso di essa?

La “scrittura errante” è quella forma di scrittura portata da un ritmo così intimo e personale, che riesce a scardinare le regole della scrittura che ci sono state tramandate. Errante perché sfugge alle convenzioni della comunicazione sociale, erra nell’errore, per giocare con le parole, erra nello spazio. Attraverso un personale codice alfabetico gli autori della scrittura errante vogliono raramente veicolare un messaggio, come nel caso Melina Riccio, che incita la società intera a occuparsi di un pianeta ferito, di una terra martoriata. Questo codice è quasi sempre segreto e di non facile comprensione.  Questi autori non cercano per forza un destinatario, un lettore per le loro espressioni verbo-visive. Talvolta nasce anche per gioco, per un piacere ludico.

Come si può tramandare la scrittura errante? Questo tipo di manifestazione prevede la propria sparizione. Gran parte di questi autori non si curano o non s’interessano del destino dei loro grafismi. Si può tramandare posando uno sguardo su di essi, riconoscendo il valore di opere d’arte, creando degli archivi che possano conservare memoria.

 

3) Le farei, se posso, una domanda più personale: qual è il suo rapporto con la scrittura e cosa lo affascina di questa forma d’arte rispetto ad altri mezzi di comunicazione o ad altri linguaggi?

Mi affascina lo sforzo degli artisti occidentali nel cercare di risanare la frattura tra scrittura e immagine. Questo a differenza delle culture orientali, dove scrittura e immagine sono la stessa cosa. Mi affascina come gli artisti valorizzino gli aspetti grafici, estetici della scrittura, pensandola quasi sullo stesso piano della raffigurazione. In questo senso la scrittura, che poteva forse essere un ricordo traumatico, legato all’infanzia, può servire a un artista per reinventarsi, per trovare una chiave espressiva tutta personale, tutta sua. Se penso a quanto ho faticato a stare seduto su un banco di scuola in prima elementare per imparare le regole del nostro alfabeto! Trovo che in questo momento storico l’aspetto gestuale della scrittura, contrapposto alla scrittura sul computer, acquisisca una nuova chiave di lettura. Sedersi a scrivere, scarabocchiare, disegnare, riempire le pagine di un quaderno, tutto ciò acquisisce oggi la forza di un atto unico, una vera azione creativa e poetica.

 

4) Tornando alle opere esposte negli spazi del MLAC, come viene utilizzata la lingua e la scrittura dagli artisti di Art Brut in mostra? 

Nell’Art Brut la lingua scritta diventa una vera aggressione alle convenzioni della scrittura così come l’abbiamo imparata, una rivolta inconsapevole a tutto quell’insieme di norme che la società promulga per conformarci, tenerci coesi, raggruppati e ordinati e, in fondo, assoggettati. Nell’Art Brut la scrittura danza, e questo scavalcare le regole della comunicazione ha involontariamente dei risvolti estetici. La scrittura serve da ponte verso un altro tipo di destinatario, un ponte con l’aldilà, con il divino, o con il profondo di sé stessi. Questo tipo di scrittura veicola una lingua libera portatrice di neologismi, di allitterazioni foniche, di cacofonie, di glossolalie, di tutta una ricchezza semantica che viene fuori, che è prodotta nel fuggire o nel rivoltarsi alle regole della comunicazione.

 

5) Rispetto alle recenti esposizioni da lei realizzate, quali “Paroles en marche” di Tolone (2016) e “Parole in cammino” a Roma (2022), quali sono le differenze e le caratteristiche che contraddistinguono l’esposizione al MLAC, anche in relazione allo spazio museale?

La mostra al MLAC è quella più ricca ed è quella che permette di fare una sintesi di quasi quindici anni di lavoro. È un condensato della ricerca, mi piace chiamarla così, perché il comporre una collezione è soprattutto una ricerca. La prima esposizione, “Noi, quelli della parola che sempre cammina” presso il Museo teatro della Commenda di Pré di Genova nel 2010, era strutturata a partire dal confronto tra parole nate all’interno della chiusura di un’istituzione totalitaria, come lo era il manicomio, con autori di Art Brut che hanno lavorato liberi nelle strade e nelle piazze di diverse città del mondo. Il centro della mostra presentava un grande progetto fotografico di Pier Nello Manoni che attraverso un dispositivo a ferro di cavallo di 24 metri, riproduceva i 70 metri del graffito che Oreste Fernando Nannetti aveva tracciato nel cortile interno all’ospedale psichiatrico di Volterra. Attorno a questo centro, altre stanze presentavano il lavoro di autori che invece hanno lavorato portando la loro scrittura errante sui muri delle città in maniera libera: Melina Riccio, Babylone, Carlo Torrighelli, Giovanni Bosco, Helga Goetze.

L’esposizione di Tolone del 2016 è più ridotta riguardo alla precedente. Presenta soltanto fotografie di graffiti, con un carattere prevalentemente documentaristico. Agli autori già presentati a Genova si è aggiunta una scoperta: i graffiti dell’autoproclamato Profeta Gentilezza nei 56 piloni dell’autostrada che attraversa Rio de Janeiro.

L’esposizione del 2022, “Parole in cammino”, nello spazio SIC12 artstudio a Roma, presentava opere grafiche e fotografie esclusivamente di autori di Art Brut. Questo rispondeva anche all’obbiettivo che si è dato SIC12 arstudio nel divulgare e far conoscere l’Art Brut a Roma e in Italia. Le mostre alla Manufacture di Aix-en-Provence e questa al MLAC sono in fondo le più complete, le più ricche, perché per la prima volta presentano l’insieme di artisti (brut e non) incontrati in tutti questi anni. Queste ultime mostre permettono un dialogo, una passerella trans-storica tra gli autori dell’Art Brut e gli artisti di altri periodi storici, quali incisori, stampatori antichi ma anche quelli dell’arte contemporanea. Un dialogo trasversale che fino ad ora non avevamo mai realizzato e che ci ha permesso di creare un nuovo ordine nella nostra collezione.

 

6) Citava lo spazio SIC12 artstudio. Come è nata la collezione che oggi trova sede in Via Francesco Negri, in zona Ostiense? Quale è stato il filo conduttore che ha portato alla nascita e alla formazione della collezione di Art Brut e arte contemporanea?

La collezione è frutto del mio lavoro curatoriale attorno all’Art Brut e della mia attività di artista e regista teatrale. Assieme a Fausto Ferraiuolo ci interessiamo degli autori di Art Brut come fonte di ispirazione per la creazione di spettacoli teatrali. La collezione è una sorta di sintesi di questi due aspetti del mio lavoro. Da una parte c’è l’attività curatoriale, intesa nel senso di prendersi cura del lavoro di un artista, attraverso non soltanto le esposizioni delle sue opere, ma occupandoci della conservazione, della diffusione del suo lavoro. In parallelo c’è il lavoro artistico che assieme a Ferraiuolo porto avanti, consistente in attività di tipo teatrale e performative, per cui gli autori di Art Brut fungono da fonte di ispirazione. C’è qualcosa di molto empatico che porta alla creazione di una nuova opera, nata da un incontro tra me e il lavoro di un artista.

Inizialmente la collezione è cominciata a comporsi quasi a nostra insaputa. Talvolta ci veniva offerta un’opera a cui tenevamo molto, altre volte invece acquistavamo un’opera che ci aveva colpito. Poi, piano piano, diventava sempre più faticoso occuparsene, ci rendevamo conto che gli armadi si riempivano di scatole, di borse, di cartelle. È lì che abbiamo iniziato a renderci conto che stavamo componendo qualcosa quasi a nostra insaputa. Inizialmente provavo orrore per tutto ciò che evocava la parola “collezione”, nel senso del tenersi stretto qualche cosa, del possedere qualche cosa, intesa come possesso geloso dei propri beni, e non piuttosto come condivisione e fonte di ispirazione per le nostre creazioni.

Il primo progetto espositivo che ha presentato opere della collezione fu “La Maison” a Aix-en-Provence nel 2018. Questo progetto ha permesso di accorgerci che le opere che avevamo non erano un insieme variegato di autori e periodi storici, ma invece rispondevano solo a certi temi a cui siamo intimamente legati. Preoccupazioni esistenziali, sul senso della vita, della morte, sulle trasformazioni del corpo umano, grandi temi che affrontiamo nelle nostre creazioni teatrali. Questa prima mostra ci ha aiutato ad accettare la parola “collezione” e a pensare sin dall’inizio che questa raccolta poteva non solo essere nostra, ma essere convissuta attraverso la sua esposizione. Nel momento in cui abbiamo accettato la parola collezione abbiamo posto le basi affinché questa raccolta potesse diventare pubblica. Quando dico pubblica intendo anche errante, una raccolta che viaggia, che possa servire da stimolo a nuove generazioni. Attualmente è privata soltanto perché si trova custodita nei nostri locali, ma questo è solo per ora. Che cosa ci appartiene in fondo? Nulla ci appartiene…

Per l’anno prossimo c’è un progetto di esposizione della collezione al Museo di Belle Arti di Buenos Aires. Ho proposto di creare un dialogo con gli autori della loro collezione storica. Questa è una grande gioia, sento che attraverso questa strada la collezione è viva. Mi interessa che la raccolta cresca, che si evolva come noi ci evolviamo al fianco di essa. Mi chiedo anche se abbia anche qualcosa a che vedere con il tema della filiazione, l’avere o meno dei figli. Forse è qualcosa di inconsciamente legato a questo tema.

 

7) Ultima domanda, tornando alla mostra, le volevo chiedere quale opera crede che rappresenti maggiormente la chiave per comprendere l’esposizione?

Forse ne direi due. Quella di Carlo Zinelli, l’opera che è stata scelta come manifesto della mostra, “Senza titolo, 1967”, ovvero il cavallo arancione, e “Senza titolo”, ossia la tunica ricamata di Melina Riccio.

In Zinelli vediamo tanti elementi caratteristici delle opere di Art Brut, un’esplosione espressiva che fa fatica a contenersi in una pagina e lo porta all’utilizzo del fronte e retro assieme all’utilizzo di differenti direzioni all’interno della pagina. È un gioco verbo-visivo, che mescola maiuscole e minuscole, parole che rispondono ad allitterazioni foniche, parole isolate e sottolineate in tutta la loro forza simbolica, come per la parola Roma per esempio.

Roma potrebbe essere un ponte tra le due opere, perché questa parola è presente anche nella tunica di Melina Riccio. Ci sono parole che soltanto pronunciandole sono piene di significati e Roma evoca il mondo, l’antichità e anche il presente. L’eternità di Roma è nel nome stesso, come accade nel buddhismo il senso di migliaia di parole che compongono un sutra è racchiuso nel titolo.

Per Melina Riccio, la parola Roma è ricamata in fili neri. La scelta di questo colore è simbolica. Per l’autrice Roma è presentata come il luogo della corruzione dove convivono il potere ecclesiastico con quello politico. Roma, secondo il codice segreto creato nelle scritture di Melina Riccio, è il rovescio della medaglia della parola Amor. Quindi contrappone in maniera dicotomica il bene e il male, il sole e le tenebre. Se Amor è ricamata in fili colorati, la parola Roma è ricamata in fili neri. Ciò si inserisce all’interno di un lungo poema, creato a partire da stoffe ritrovate per terra, purificate, lavate, “santificate” nella sua opera e infine indossate come una sacerdotessa della parola errante.